
Ricordo la prima volta che mi trovai sulla cima d'un monte: un’estate tra i Pirenei, aspettando
il sorgere del sole. L’aria era fresca e i campanacci delle pecore suonavano appena, quasi
come se quell’alba stesse svegliando poco a poco l’intero gregge.
In quell’istante credo di aver sentito una sensazione di benessere, la necessità di valutare una grammatica che il più delle volte resta fuori dalle considerazioni etnografiche, un'immersione dell’individuo nella natura e viceversa.
Sulla scena umana i concetti di natura e cultura sono stati costruiti secondo vari paradigmi.
Philippe Descola in Oltre Natura e Cultura (2014) apre un dibattito molto interessante e
rivoluzionario sulla questione, conducendo il lettore a ripensare a quella specifica
cosmologia che ha visto dar forma alla concezione di naturalismo, inserita in uno scontato
universalismo delle leggi, e di cultura, piena di un relativismo che la vede protagonista delle
riflessioni antropologiche.
Questi due macro-concetti, che fanno parte di un principio culturalmente costruito, hanno
assunto varie forme nella lunga storia dell’umanità, conducendo lo sguardo verso paradigmi
in grado di influenzare il rapporto stesso tra l’ambiente e chi siamo.
Senza dilagare eccessivamente in questa ampia riflessione, ciò su cui vorrei porre
l’attenzione è su come questi paradigmi abbiano subito un cambio di rotta nella concezione
di spazio fisico e naturale, un cambio che ha visto emergere una certa porosità fra quelle
che sono intese da Descola come corpi umani e non-umani e, di fatto, tra uomo e natura.
Una dinamica che senza alcun dubbio è nata dall’esperienza di quelle persone che, a volte
involontariamente, sono riuscite a scardinare quell’antico (neanche troppo!) dualismo fra
queste dimensioni.
Potremmo definire l’avvicinamento tra i due poli come un grido di salvezza dell’umanità?
L’uomo ha bisogno di sentirsi inserito nel contesto che vive in quanto ambiente tutto, in quanto Terra, in quanto flusso che sollecita lo stato fisico e psicologico dell’individuo?
Questi ambientalismi contemporanei, come li definisce Descola, riescono a integrare quel
bisogno costante dell’uomo di farsi natura e della natura di farsi umana: basterebbe
soffermarsi sul rapporto che molte culture hanno con il proprio intorno o anche alle moderne
esigenze di creare spazi di ritualizzazione connessi con la natura, sempre più vicina ai
luoghi del quotidiano che invece sono stereotipi del grigio cemento e della routine
incalzante. Se l’Occidente ha da sempre rivelato un certo pregiudizio nei confronti di quelle
cosmologie poco conosciute dal nostro immaginario (come il totemismo e l’animismo) ora fa
attenzione a valutarne quegli aspetti in grado di apportare un benessere psico-fisico, a
discapito di quegli atteggiamenti che gli antropologi demonizzano con il concetto di
esotismo.

Per comprendere le varie sfaccettature degli effetti che la natura apporta in quanto creatrice
di benessere o in quanto equilibratrice delle strutture sociali, dobbiamo addentrarci in alcuni
lavori, pionieri di una scoperta sensazionale: durante la fine dell’800 molti studiosi indagano
sulle proprietà delle endorfine e sulla capacità umana di autoindursi effetti in grado di ridurre
la tensione e l’ansia, rilassare la muscolatura e diversificare l’attenzione in base agli stimoli
del dolore. Questi studi permisero di ampliare la visione medica occidentale verso lo studio
dello sciamanesimo e degli effetti benefici che molte pratiche riescono ad apportare al corpo
umano.
Lo sciamano, colui che media tra la dimensione umana e quella dell’invisibile è colui che interagisce con la natura ed è in grado di condurre verso un viaggio, secondo le simbologie locali, attraverso gli stati alterati di coscienza. Questa figura, presente in varie parti del mondo, fa parte di un contesto culturale in cui l’ambiente circostante è percepito come vivo, quei corpi non umani di cui parlava Descola, intesi come spiriti dallo sciamano consapevole che, oltre alle relazioni fisiche che possono legare l’individuo tra individui o l’individuo con l’ambiente, esistono anche quelle relazioni intese come spirituali, che riescono a connettere l’uomo con la natura, una riconnessione che sembra partire proprio da un’ottica metafisica.
Un processo di trasformazione che avviene grazie all’interazione tra vari elementi: quello
umano e quello naturale connessi grazie ad uno stimolo in grado di permettere il dialogo fra
queste due realtà.
Marco Daldoss Pirri presenta una tesi dal titolo “Spirituality, the connection to nature, and the
role of shamanic rituals”, per dimostrare come l’utilizzo di elementi come l’Ayahuasca,
permettano all’individuo di ritrovare quella relazione persa con la natura, aumentandone il rispetto e, di conseguenza, contrastarne la crisi ambientale.
Anche l’utilizzo del tamburo sciamanico, oltre a quello delle droghe psicoattive, viene inteso
come pratica terapeutica: l’uso del suono funziona come una guida che altera lo stato di
coscienza: il cervello produce endorfine e questo potrebbe mostrare la trasformazione
personale che avviene durante l’esperienza sciamanica in dialogo con la natura.
Questi esempi, che possono sembrare lontani, sono più vicini di quanto possa sembrare:
senza dover arrivare in Siberia o in Latinoamerica, l’approccio sciamanico ha cominciato a
svilupparsi in molte parti del mondo Occidentale, diffondendosi attraverso workshops e
seminari esperienziali. Numerose fondazioni e associazioni hanno cominciato a praticare varie attività connesse allo sciamanesimo per migliorare il benessere personale ed incoraggiare un ritorno al dialogo con la natura e con sé stessi.
Lorenza Menegoni, antropologa, è membro della Foundation for Shamanic Studies
(California) e conduce vari incontri nel Core Shamanism. Questo come altri esempi mostrano una volontà odierna di interagire con la natura, intesa come necessaria per poter incontrare un benessere che spesso si confonde tra le complessità di un presente iperattivo, virtuale, quasi alienante.
L’attuale movimento verso una ricerca continua che conduca ad una cultura del benessere
psico-fisico, ci conduce ad una riappropriazione di tecniche e pratiche che sono sempre
esistite e che hanno, a quanto pare, bisogno di essere proposte secondo una lettura e un
approccio differente.
La questione del corpo e dello spazio si rivela fondamentale in vari studi in cui si analizza
l’attività umana in relazione alla natura: un esempio affascinante è lo studio condotto
dall’ etnomusicologo Steven Feld in Papua Nuova Guinea presso la popolazione kaluli, una
ricerca durata venticinque anni sul sistema del suono inteso come sistema culturale e
simbolico. Lo studio di questa interazione sonora mostra come il suono umano e quello della natura siano indissolubili tanto da creare un’unica voce, quella della foresta.
L’ethos sociale di questa popolazione è incarnata nei loro canti, un tutt’uno con la natura, essa stessa narratrice dei sentimenti del popolo kaluli. Il benessere qui è inteso come una condivisione continua con la natura che si fa parte attiva e protagonista dell’identità locale.
Basterebbe ascoltare alcune delle registrazioni sonore dell’etnomusicologo per comprendere
l’emotività di queste esecuzioni, che accompagna gli abitanti in ogni routine giornaliera.
Natura che diviene cultura, una questione aperta anche dall’antropologo Francesco Remotti
attraverso la sua ricerca nella Repubblica Democratica del Congo presso la comunità
banande: i bananeti che circondano i villaggi come metafora sociale che, di fronte
all’insicurezza e all'instabilità della morte, si cerca di trovare una risposta, di costruire un
luogo in cui approda ciò che rimane (Remotti, 1993) dei defunti, ma soprattutto di creare
una relazione ben chiara con l’ambiguo, con ciò che non possiamo più vedere e con cui sarà
più difficile interagire. Così i banande seppelliscono i propri defunti sotto i bananeti, un
ambiente verdeggiante che acquisisce un’importanza ecologica, alimentare e rituale. Circa un mese dopo dal lutto i familiari del defunto tagliano alcuni tronchi di banano come “rottura” dal lutto per poter tornare ad un tempo al di fuori da questo dolore.
La necessità rituale mostra come l’utilizzo della natura stessa che nasce, cresce, muore e si rigenera sia specchio della condizione umana e possibile risolutrice delle sue sofferenze.
L’ambiente naturale è catalizzatore di eventi sociali e di rituali in grado di rafforzare e
ridimensionare la sensibilità umana in relazione con il sé e con il tutto.
Nonostante non si parli direttamente del benessere psico-fisico ognuna di queste attività
rivela particolarità che alimentano questa condizione lontano da una percezione tipica da
appagamento immediato, come potremmo definire un massaggio o una notte alla SPA.
In quanto società abbiamo cominciato a sviluppare una certa sensibilità, ricercato dei valori,
dei significati, che hanno bisogno di esistere in quanto natura-cultura per poter definire
quella necessità che nell’ era moderna ci riporta ad ascoltare il rumore del vento, camminare
scalzi sulla terra e sentire l’odore della pioggia.
Circa l'autore: ELISA MASSARO

Nata nel 1992 a Roma. SI laurea in Scienze della Comunicazione e si specializza in Antropologia Culturale all’Università di Torino. Interessata alla documentaristica realizza dei progetti visuali narrando le realtà delle comunità filippine, peruviane e boliviane presenti sul territorio torinese.
La biografia carceraria, il video partecipativo e il teatro di comunità la avvicinano sempre più ai temi della memoria, della narrazione e alla metodologia partecipativa.
La sua ultima esperienza video è stata in Spagna come aiutante per il progetto di Iban Ayesta Aldanondo, Amores trashumantes.
Attualmente frequenta un master in Film Preservation Studies alla Elίas Querejeta Zine Eskola (Donostia).
Bibliografia
Descola P., Oltre natura e cultura, SEID, Firenze, 2014;
Feld S., Suono e sentimento. Uccelli, lamento, poetica e canzone nell'espressione kaluli, Il
Saggiatore, 2009.
Raymond Prince, Shamans and Endorphins: Hypotheses for a Synthesis, in Ethos, Vol. 10,
No. 4, pp. 409-423,1982.
Remotti F., Luoghi e corpi. Antropologia dello spazio, del tempo e del potere, Boringhieri,
Torino, 1993
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